martedì 15 aprile 2014

Quell'astronave chiamata Campus

Articolo tratto dalla fanzine universitaria autonoma Rise Up

E’ passato ormai più di un anno e mezzo dall’inaugurazione del nuovo campus Luigi Einaudi di Torino, una struttura sulla quale da subito abbiamo preso parola interrogandoci innanzitutto sul rapporto tra il dispendio non proprio trascurabile che la struttura ha comportato (si parla di 135 milioni di euro) e la sua reale fruibilità e adeguatezza alle esigenze della popolazione più numerosa che ogni giorno lo attraversa, quella studentesca. 

Sgombriamo subito il campo da possibili fraintendimenti: come abbiamo chiarito fin da subito, non ci interessa certo sviluppare una critica a priori rispetto alla costruzione di un nuovo campus. Chi frequenta l’Università di Torino da qualche anno difficilmente rimpiange gli spazi fatiscenti e inadeguati che caratterizzano strutture come Palazzo Nuovo o l’ex palazzina di via Plana che prima ospitava la facoltà di Scienze Politiche e sa bene come la mancanza di spazi sia tuttora un problema. 

Tuttavia, il lavoro che abbiamo portato avanti in questi mesi ci ha permesso di costruire un discorso più approfondito rispetto al CLE che crediamo non possa essere slegato da una riflessione più generale sul modello di università che viene oggi proposto e la direzione verso cui tende. 


Partiamo con qualche dato alla mano: il campus Luigi Einaudi si estende su un’area di ben 45mila metri quadrati ed è strutturato in diversi edifici che compongono l’ampia struttura circolare che lo caratterizza. Eppure una sproporzione salta subito agli occhi: quella tra la vastità dell’area del campus e gli spazi effettivamente destinati agli studenti. La parte dedicata alle aule rappresenta infatti una piccola parte del tutto e le aule stesse sono troppo piccole per ospitare la maggior parte dei corsi, con il risultato che molti studenti si sono ritrovati nuovamente a seguire le lezioni seduti per terra. Non solo: sull’intera superficie del campus non è stato finora pensato nemmeno uno spazio destinato alla socialità tra gli studenti, sia esso un posto dove mangiare senza doversi sedere a consumare ai tavoli del bar o semplicemente il luogo in cui fermarsi a chiacchierare alla fine della lezione. A tutto questo si sommano poi gli assurdi divieti vigenti (come quello di calpestare le aree verdi) che vengono costantemente ricordati da cartelli e addetti della vigilanza che pattugliano senza sosta il CLE. 

Leggere tutto questo semplicemente nei termini dell’inefficienza o di ritardi di costruzione – come si è affrettato a fare il nuovo rettore Ajani, respingendo ogni responsabilità rispetto ad un progetto ormai datato e (a suo dire) imputabile unicamente agli errori dei suoi predecessori – ci sembra tuttavia riduttivo e rischia di far perdere di vista il quadro più generale entro il quale il nuovo campus si inserisce. 

Certo, su alcuni aspetti pesa innegabilmente l’effetto della scure dei tagli abbattutasi sul mondo della formazione negli ultimi anni che hanno progressivamente lasciato briciole del welfare studentesco e di altri servizi, come gli orari di apertura delle biblioteche. 

Per molti altri versi, però, l’innovativa e moderna struttura atterrata nel bel mezzo del quartiere Vanchiglia risponde a precise esigenze di riforma dei nostri atenei: se le aule attualmente troppo piccole preludono ad una progressiva (e già in atto) restrizione dell’accesso alla formazione universitaria, i grandi spazi vuoti, inutilizzati o spersonalizzanti del campus sono pensati per plasmare i tempi e i modelli di vita degli studenti che lo frequentano. In un’università che ci
vorrebbe sempre più utenti e sempre meno parte attiva e protagonista del nostro percorso di formazione, l’idea sottesa a strutture di questo tipo è che lo studente le viva unicamente per consumare il proprio prodotto-lezione e che ulteriori spazi per la socialità, il confronto non siano quindi necessari. Tramite l’ambiente asettico e costantemente controllato (oltre che dalla vigilanza, dalle 254 telecamere interne distribuite per tutto il campus) si cerca di imporre l’atomizzazione dei rapporti e il disciplinamento dei comportamenti degli studenti. 

La sfida che ci viene posta – e che abbiamo deciso di raccogliere – è quella di cambiare di segno alle dinamiche vigenti all’interno del campus, non certo andando a sopperire a mancanze e insufficienze, bensì ribaltando completamente questo modello e proponendo forme diverse di vivere l’università tramite la riappropriazione diretta degli spazi e la costruzione di momenti di socialità altra.