Articolo tratto dalla fanzine universitaria autonoma Rise Up
E’ passato ormai più di un anno e mezzo dall’inaugurazione del nuovo campus Luigi Einaudi di Torino, una struttura sulla quale da subito abbiamo preso parola interrogandoci innanzitutto sul rapporto tra il dispendio non proprio trascurabile che la struttura ha comportato (si parla di 135 milioni di euro) e la sua reale fruibilità e adeguatezza alle esigenze della popolazione più numerosa che ogni giorno lo attraversa, quella studentesca.
E’ passato ormai più di un anno e mezzo dall’inaugurazione del nuovo campus Luigi Einaudi di Torino, una struttura sulla quale da subito abbiamo preso parola interrogandoci innanzitutto sul rapporto tra il dispendio non proprio trascurabile che la struttura ha comportato (si parla di 135 milioni di euro) e la sua reale fruibilità e adeguatezza alle esigenze della popolazione più numerosa che ogni giorno lo attraversa, quella studentesca.
Sgombriamo subito il campo da
possibili fraintendimenti: come abbiamo chiarito fin da subito, non ci
interessa certo sviluppare una critica a priori rispetto alla
costruzione di un nuovo campus. Chi frequenta l’Università di Torino da
qualche anno difficilmente rimpiange gli spazi fatiscenti e inadeguati
che caratterizzano strutture come Palazzo Nuovo o l’ex palazzina di via
Plana che prima ospitava la facoltà di Scienze Politiche e sa bene come
la mancanza di spazi sia tuttora un problema.
Tuttavia, il lavoro
che abbiamo portato avanti in questi mesi ci ha permesso di costruire
un discorso più approfondito rispetto al CLE che crediamo non possa
essere slegato da una riflessione più generale sul modello di università
che viene oggi proposto e la direzione verso cui tende.
Partiamo
con qualche dato alla mano: il campus Luigi Einaudi si estende su
un’area di ben 45mila metri quadrati ed è strutturato in diversi edifici
che compongono l’ampia struttura circolare che lo caratterizza. Eppure
una sproporzione salta subito agli occhi: quella tra la vastità
dell’area del campus e gli spazi effettivamente destinati agli studenti.
La parte dedicata alle aule rappresenta infatti una piccola parte del
tutto e le aule stesse sono troppo piccole per ospitare la maggior parte
dei corsi, con il risultato che molti studenti si sono ritrovati
nuovamente a seguire le lezioni seduti per terra. Non solo: sull’intera
superficie del campus non è stato finora pensato nemmeno uno spazio
destinato alla socialità tra gli studenti, sia esso un posto dove
mangiare senza doversi sedere a consumare ai tavoli del bar o
semplicemente il luogo in cui fermarsi a chiacchierare alla fine della
lezione. A tutto questo si sommano poi gli assurdi divieti vigenti (come
quello di calpestare le aree verdi) che vengono costantemente ricordati
da cartelli e addetti della vigilanza che pattugliano senza sosta il
CLE.
Leggere tutto questo semplicemente nei termini
dell’inefficienza o di ritardi di costruzione – come si è affrettato a
fare il nuovo rettore Ajani, respingendo ogni responsabilità rispetto ad
un progetto ormai datato e (a suo dire) imputabile unicamente agli
errori dei suoi predecessori – ci sembra tuttavia riduttivo e rischia di
far perdere di vista il quadro più generale entro il quale il nuovo
campus si inserisce.
Certo, su alcuni aspetti pesa innegabilmente
l’effetto della scure dei tagli abbattutasi sul mondo della formazione
negli ultimi anni che hanno progressivamente lasciato briciole del
welfare studentesco e di altri servizi, come gli orari di apertura delle
biblioteche.
Per molti altri versi, però, l’innovativa e moderna
struttura atterrata nel bel mezzo del quartiere Vanchiglia risponde a
precise esigenze di riforma dei nostri atenei: se le aule attualmente
troppo piccole preludono ad una progressiva (e già in atto) restrizione
dell’accesso alla formazione universitaria, i grandi spazi vuoti,
inutilizzati o spersonalizzanti del campus sono pensati per plasmare i
tempi e i modelli di vita degli studenti che lo frequentano. In
un’università che ci
vorrebbe sempre più utenti e sempre meno
parte attiva e protagonista del nostro percorso di formazione, l’idea
sottesa a strutture di questo tipo è che lo studente le viva unicamente
per consumare il proprio prodotto-lezione e che ulteriori spazi per la
socialità, il confronto non siano quindi necessari. Tramite l’ambiente
asettico e costantemente controllato (oltre che dalla vigilanza, dalle
254 telecamere interne distribuite per tutto il campus) si cerca di
imporre l’atomizzazione dei rapporti e il disciplinamento dei
comportamenti degli studenti.
La sfida che ci viene posta
– e che abbiamo deciso di raccogliere – è quella di cambiare di segno
alle dinamiche vigenti all’interno del campus, non certo andando a
sopperire a mancanze e insufficienze, bensì ribaltando completamente
questo modello e proponendo forme diverse di vivere l’università tramite
la riappropriazione diretta degli spazi e la costruzione di momenti di
socialità altra.